Alberto ha avuto un’idea (seconda puntata)
Faceva freddo. Un freddo piatto, grigio, silenzioso, che avvolgeva tutte le cose.
Le automobili no, quelle erano colorate (e che colori) e tanti fiori a rompere le immense teorie di cemento.
Erano giunti a Monaco!
Alberto quasi non ci credeva. Qualcuno finalmente si era accorto che era in grado di leggere e di scrivere, di produrre idee (e di creare profitto). Aveva finalmente lasciato il patrio suolo, le conosciute sponde, la terra natia, (eccetera, eccetera, retorica cantando) che a lui, laureato, specializzato e “masterizzato” era stata capace di offrire soltanto un posto come lavapiatti part time in un ristorante indiano.
Il vecchio professore di Alberto, nonostante la sua veneranda età, ancora non si capacitava che i migliori “figli d’Italia” andassero ad arricchire di novità e futuro gli altri paesi europei che poi ci avrebbero venduto la nuova tecnologia prodotta dai nostri “emigranti”.
Eppure sarebbero bastati pochi milioni di euro per farli rimanere a lavorare in Italia.
Nel frattempo i nostri super dirigenti pubblici, senza alcun pudore e rossore in volto, protestavano vivacemente (anche quelli che per ruolo forse avrebbero dovuto esimersi) perché qualcuno osava pensare che un tetto massimo di circa duecentoquarantamila euro ai loro emolumenti sarebbe comunque bastato a garantirgli una vita comoda (felice no, per essere felici, per fortuna, non occorre avere denaro o potere, occorre avere cuore, umiltà e senso del ridicolo).
In quello stesso istante, in Italia, il figlio deficiente e griffato dell’onorevole Pallonaro posteggiava il suo gigantesco, inutile, suv e si preparava ad occupare un posto nel consiglio di amministrazione di una grande (altrettanto inutile) azienda (si fa per dire) statale (ché un posto in Consiglio di amministrazione non si nega a nessuno).
Lo attendeva trepidante il Direttore Generale, amico di papà (“me lo saluti tanto”) e Suellen, procace segretaria personale (lobotomizzata da vent’anni di telenovele e consigli per gli acquisti) fornita di immancabili minigonna, tacchi a spillo e labbrone d’ordinanza.
Mario, Andrea, Luigi, Antonella e Maria, che (per amor di ricerca e di sistemazione) erano volati a Monaco insieme ad Alberto, salivano in silenzio sul pulman che con esagerata puntualità li lasciava davanti al cancello della fabbrica. Ad attenderli il direttore generale, certo Luigi Esposito che per accento e cognome non era certo natio di quei luoghi e poi Francesco, Monica, Anna, Fabio, Fabrizio, Ludovico, etc, etc. Ed erano tanti e tanti i giovani italiani e Alberto pensò che a casa fossero rimasti soltanto poveracci, giganteschi suv, segretarie rifatte, super dirigenti e politici. E il suo vecchio professore che ancora non si capacitava che i migliori figli d’Italia avessero dovuto abbandonare lo stivale.
Salvatore Marano di SVS.Impresa